Le interviste possibili: Iacopo Frigerio

La rubrica «Le interviste possibili» prende spunto dal titolo di una trasmissione radiofonica («Le interviste impossibili»), andata in onda nel 1974 e nel 1975 sulla seconda rete radiofonica Rai, in cui alcuni intellettuali intervistavano fantasmi di persone appartenenti a un’altra epoca. Non sono un intellettuale, ciononostante ho pensato fosse giunto il momento di chiacchierare pubblicamente con persone che stimo o alle cui riflessioni sono particolarmente interessato. Sono interviste possibili ed ecco perché le faccio.


Oggi chiacchiero con Iacopo…

Iacopo (nato a Magenta nel 1983 e abitante a Legnano; insomma, le battaglie nel destino…) gioca di ruolo dal 1999, dopo averlo scoperto in un gruppo d’oratorio. Nel 2002 ha frequentato un’associazione ludica locale, dal 2003 è stato introdotto da Flavio Mortarino nel Flying Circus, dal 2005 ha scoperto i  giochi di ruolo indie dal design moderno, collaborando con le case editrici nascenti, Narrattiva e Janus Design, oltre a far parte del collettivo Drago Nero Game Studio che diede vita sulla spinta di Davide Losito al primo gioco di ruolo forgita italiano, Elar. Dal 2009 prende le redini, assieme a Davide e Alessandro Temporiti, della casa Coyote Press e dal 2010 comincia a pubblicare giochi come autore. Tra i suoi principali orgogli, come autore, RavenDeath, Precious e 42 GUNS; come editore, On Mighty Thews, L’amore al tempo della guerra, 3:16, Mars Colony, Coma e Girl X Boy. Ora si dedica di più alla sua famiglia, ha smesso di fare l’editore, gioca nella sua taverna, ha chiuso Coyote Press e si dedica alla sua etichetta di game design, FantAsia Games.


Iacopo è, tra gli ideatori di giochi più vicini a me, forse uno dei più curiosi e aperti. Cosa ti porta ad avvicinarti a mondi ed esperienze ludiche diverse? Si tratta solo di studio e ricerca, o c’è qualcos’altro?

La risposta più sincera è che probabilmente si tratta un po’ di tutto. Io prendo il mio essere game designer in modo molto serio. Ho la fortuna di non “dover” essere un professionista, nel senso della dipendenza economica, e quindi di poter fare in modo completamente libero, ma sul piano della preparazione e dello studio tecnico non lascio indietro mai nulla e mi preparo come dovrebbe fare un vero professionista del settore.

Credo che sia sempre necessario guardare tutto l’orizzonte ludico e, per quanto possibile, provare a copiare e implementare all’interno della propria produzione. Anche per questo mi sono molto dedicato a esplorare diversi sistemi OSR (Old School Renaissance), o a guardare come funzionassero i giochi della scuola svedese, entrambe prospettive ludiche molto lontane dalla mia, che è invece di deriva forgita. Di recente non ho lesinato di acquistare, per motivi di studio, l’ultima versione de La Leggenda dei Cinque Anelli o Kids on Bikes. Ma in sincerità vado anche oltre il mondo dei GDR; io sono un appassionato anche di giochi in scatola e spesso mi faccio influenzare da idee che trovo in quel contesto. In tutti i miei giochi si può facilmente trovare la traccia di un boardgame a cui mi ispiro. Per esempio, per RavenDeath ci fu Kingsburg, per 42 GUNS e Precious ci fu Olympus, per un gioco che ho in sviluppo (Il Castello di Dracula) mi sono ispirato a Dead of Night.

Sebbene non possa affatto dirmi hegeliano (chi davvero potrebbe oggi), cerco di seguire un principio che impone di migliorare le proprie cose guardando a ciò che è fuori da esse, alla ricerca di un qualcosa che possa essere evoluzione positiva per entrambe. So che questo mi pone praticamente fuori dallo spirito del tempo (sempre per citare Hegel) in un mondo ludico attuale dove l’innovazione non è affatto premiata e dove la spinta forte è all’omologazione, all’industrializzazione del prodotto, alla scomparsa della vena autoriale (stiamo anche quasi tornando alla scomparsa del nome dell’autore sulle copertine dei manuali), ma rimango ancorato a un altro modo di pensare: sono un millennial figlio dell’incalzante evoluzione tecnologica e la mia guida costante sarà la spinta a provare a intrecciare sempre più, in modo raffinato, meccaniche e narrazione, oltre all’evoluzione tecnologica in sé.

Detto ciò, sono sinceramente attratto anche da altri elementi. Io sono affascinato dal lato estetico dei prodotti ludici, quelli che se lo meritano almeno. Vedo prodotti come Ultra Violet Grasslands o Mausritter e non posso non esaltarmi, nel considerare anche questi giochi a loro modo delle innovazioni. E c’è del vero in questo, perché se non si riesce a concepire, nella mia visione del design, che essere un buon designer passa anche da elementi di paragame, financo all’esaltazione del prodotto commerciale in quanto tale, si è solo designer a metà. Purtroppo però questo punto è dove io cedo terreno, non sono dotato di grande talento o visione grafica e questo mi limita rispetto ai grandi passi avanti fatti nell’ambiente.
In ultimo è vero anche che sebbene in generale come giocatore possa dirmi fortemente legato a stilemi forgiti, non posso negare che non mi farei problemi a far da giocatore in alcuni altri giochi tradizionali, neotradizionali o OSR. Per dire che a Mausritter giocherei volentieri, ma anche a 13th Age. E credo sia utile, perché è importante studiare, ma il GDR rimane all’essenza un’attività che deve passare dall’esercizio pratico. Rimpiango piuttosto che gli impegni personali mi abbiano allontanato da una delle mie più grandi passioni in assoluto, che è il genere di GDR live. Ma tempo al tempo, un giorno riuscirò di nuovo a ritrovare il modo.


Perdonami la provocazione, ma quella dell’essere designer a metà sembra quasi una versione più aggressiva dell’accusa che viene mossa costantemente all’ambiente indie, ossia quella di non essere in grado di «vendersi». Credi che i designer indie facciano confusione tra svendersi (quindi svendere i propri valori e la propria identità) e vendersi (sapersi piazzare sul mercato)? Se il mercato come lo conosciamo non esistesse, quale sarebbe il tuo approccio al game design?

Cerco innanzitutto di approfondire il concetto. Per me e per una buona parte dei game designer con cui mi confronto, vale il motto «System does matter», inteso in un senso ampio e profondo di regole, meccaniche, contratti sociali come parte di un unicum che rende un’esperienza ludica diversa dalle altre. Ritengo che questo motto sia stato una rivoluzione e nel vedere sempre più frequenti e sempre più forti attacchi, motteggi, tentativi di perversione, mi viene da pensare (oggi ancora più di venti o dieci anni fa) che è importante fare pesare il game design a fronte della deriva odierna molto più product oriented (scatole, extra, dadi speciali, feature) o art oriented (come negli anni Novanta, bellissimi concept art book).

Però, proprio all’interno della cerchia con cui mi confronto, probabilmente proprio per ribadire l’importanza e la forza del game design, si eccede nel comportamento opposto, che è talvolta sottovalutare o addirittura minimizzare l’impatto e l’importanza di tanti altri aspetti. Non parlo solo (e ribadisco comunque che manca) di una bella grafica, di illustrazioni potenti e colorate, di dimensioni da codici medievali, parlo anche della cura di materiale che facilita o veicola l’esperienza di gioco, della capacità di veicolare il genere, il tono, i principi di gioco con lo stile delle parole usate. Come me sai quanto sia importante nello scrivere una mossa di un PbtA che, pur essendo una regola (e quindi il più possibile chiara e precisa), deve contenere un pezzo di colore, di ambientazione, di esperienza ludica che il gioco stesso dovrà far emergere nel giocatore.

Parlando però in modo molto più profondo di «autori indie», credo vada fatta una precisazione importante. Un autore indipendente, soprattutto se dilettante (nel senso proprio di fare game design come hobby, per piacere personale), per come la vedo io può avere una visione tutta sua di quale debba essere l’obiettivo personale di diffusione. Non deve obbedire necessariamente alle regole che il mercato (occidentale, italiano, ludico…) impone. Per un autore indie quello che interessa magari è giocare coi propri amici ed è sufficiente uno spillato che gira tra loro. Magari un autore indie ha un’idea che il mercato possa e debba essere fatto da una componente completamente virtuale, di edizioni gratuite. Magari interessa sì che ci sia una forma fisica, ma è poco interessato a massimizzare la diffusione, e vuole solo godere dell’oggetto fisico e poterlo dare a quante più persone, ma che ha potuto conoscere personalmente. Sono tutte posizioni che trovo legittime e comprendo, anzi giustifico, che in codesti casi si possa arrivare a ignorare tutta una serie di aspetti (alcuni, magari come una grafica accattivante o le illustrazioni belle). La mia critica può avere senso solo se l’autore indie vuole davvero avere come obiettivo quello di affermarsi all’interno del vero contesto di mercato; allora sì, in quel caso si dovrebbe essere consapevoli di tutti gli elementi.

E poi entra un ulteriore livello, che è quello della consapevolezza editoriale. Io per anni, come autore indie, sono stato consapevole di offrire un prodotto di qualità editoriale media, non eccelsa (penso a RavenDeath, Precious, Il Canto del Cigno), con una distribuzione zoppicante e una diffusione relativa. Ma c’era consapevolezza di poter penetrare e competere nel mercato solo fino a un certo punto; uno scotto però che pagavo tenendo conto dei miei limiti di tempo, di budget e di spesa finale da far pesare al potenziale cliente (per me prima di tutto era necessario il risparmio, per tenere prezzi popolari adatti a chiunque). Però io come autore indie volevo «il successo di critica» più che il successo commerciale. Oggi ho qualche velleità in più, ma allora devo essere consapevole che senza qualcuno al fianco che sia un ottimo illustratore e un ottimo grafico e un ottimo editore, al più potrò puntare solo a bissare i successi precedenti, ma non a migliorarli.

Per rispondere all’ultima domanda. In realtà non credo mi comporterei in modo molto diverso da quanto ho fatto. Cercherei sempre di puntare a un design moderno e raffinato, profondo sulle dinamiche psicologiche anche quando il color del gioco non sembra parlarne, focalizzato e aggressivo sull’esperienza ludica. E con il miglior comparto grafico e di placement del prodotto mi sia concesso grazie alle mie conoscenze e disponibilità economiche. Anche di recente, quando ho avuto l’onore (ma anche l’onere) di essere scelto per sviluppare giochi su commissione, ho potuto godere di enormi libertà concettuali che mi hanno permesso di fare secondo i miei criteri. Ed è stato appagante, perché anzi le richieste mi hanno forzato a pensare qualcosa che altrimenti io da solo non avrei mai pensato. E sono giochi che non vedo l’ora di veder pubblicati perché ritengo siano importanti a livello di game design.


Siamo entrambi ideatori piuttosto metodici e prolifici, ma a differenza mia tu procedi in maniera più spedita. È una capacità che ti invidio molto. Qual è il procedimento che segui nell’ideazione di un gioco e nella stesura del manuale?

Credo che il vero motivo alla base del mio essere così incalzante nello sviluppare, scrivere, ideare sia sostanzialmente l’ossessione. Una passione così forte, che non riesce a estinguersi mai (in questi venti anni di amore per il GDR non è mai esistito un momento di vero disamoramento, solo brevissimi momenti di stanchezza) e che si mischia alla mia ossessione per dimostrare di poter davvero essere qualcuno capace di dire la sua. Il tutto ampliato dalla consapevolezza di non essersi nemmeno avvicinato alla meta.

Non credo di avere in senso stretto un metodo preciso, anche se esistono dei paletti metodologici, questo sì.  In me convivono antichità e tecnologia. Quando sono nella fase di pura ideazione devo avere con me un quaderno di appunti, qualcosa di fisico su cui possa scrivere con una penna; lo porto sempre con me perché l’idea può venirmi in qualsiasi momento. Spesso poi l’idea la lascio lì a macerare, in alcuni casi anche per anni, come per l’idea che è stata alla base del mio storygame Seriana. Molte idee non sono mai andate avanti perché dopo il momento dell’esaltazione, riviste in un secondo momento si sono rivelate pessime.

Poi ammetto che in questi ultimi anni mi sono fatto violenza per evitare qualsiasi tipo di evento che mi portasse a nuove idee. Ho capito che avevo già fin troppi progetti in ballo e ho evitato di disperdere ancor di più le mie forze. Perché avere nuove idee è seducente, come la fase d’innamoramento di un rapporto di coppia: c’è quella forza entusiasta ed esplosiva che ti riempie, poi però arriva una fase di stanca e qualche altra idea emerge con potenza nel tuo cuore e nella testa. Stare dietro a un progetto serio alla lunga invece diventa logorante e tedioso, soprattutto quando cerchi di scrivere un manuale leggibile e chiaro.

Ma sto divagando. Quando decido che un gioco vale la pena, passo al computer e scrivo un documento Word. Cerco a quel punto, anche se magari sono alle prime fasi, di essere rigoroso. Cerco sempre di trovare esempi da copiare, testi di giochi che mi hanno sempre colpito per la chiarezza e uso quelli come scheletri di riferimento per quello che sto facendo io. Questo però mi aiuta fin da subito a impostare bene il testo ed è tutto tempo risparmiato per il futuro. Questo credo contribuisca a rendermi abbastanza incalzante nella produzione. E poi cerco di dedicare ogni giorno almeno un’ora alle mie produzioni. Ho la fortuna di essere uno che ama la notte e di non aver bisogno di molte ore di sonno. Quindi, scattata la mezzanotte, mi trasformo in game designer.

In ultimo, alterno molto. Da dopo il mio matrimonio (2016) tengo nella line up di sviluppo sempre sei giochi e li alterno con lo scorrere delle settimane. Mi aiuta a non annoiarmi e a riuscire sempre a riguardare con occhio critico quanto fatto in passato, prima che il gioco sia terminato. Certo, ci sono eccezioni; di recente a WAR ho dedicato un lunghissimo periodo di sviluppo, ne ero totalmente consumato, ma si tratta di un progetto enorme e cercavo di rispettare i tempi richiesti dall’editore che me l’aveva commissionato.


Su una cosa estimatori e detrattori concordano: i tuoi giochi sono ricchi di crunch. Immagino sia una caratteristica che ti sta molto a cuore, ma vorrei provare a capire. Si tratta di un modo di fare design dal quale non riesci a staccarti o la ritieni la via più «breve» per raggiungere i tuoi scopi?

Ti ringrazio per questa domanda, perché mi permette di confrontarmi meglio con quanti mi seguono. Certamente è vero che amo molto i design pieni di crunch e come giocatore ho piacere al godere degli ingranaggi che girano in giochi come 13th Age, Mouseguard, L’Unico Anello, Blades in the Dark, Il mondo dell’apocalisse, Sagas of the Icelanders o The Sprawl; nel senso che, andando alle fondamenta del mio personale ciclo di ricompensa, traggo piacere dal fatto che si incentivi il mio giocare premiandomi con effetti meccanici (spesso legati a dadi o carte in più o vantaggi vari) e che questi vantaggi finiscano per farmi avere ancora più controlli narrativi all’interno della storia. Ogni «combo» che accade appaga il mio piacere. E riprendo quanto risposto alla prima domanda, cioè io sono un amante dei boardgame, amo giochi come Caylus, Kingsburg, 7 Wonders o Lorenzo il Magnifico. Giochi dove combo, incastri meccanici, crunch la fanno da padroni.

Al contrario soffro e gioco poco, con piacevoli eccezioni, a molti giochi amati là fuori nel sottobosco della comunità indie, come Witch, Montsegur, Fall of Magic. Ho perfino un rapporto controverso con Fate, che a volte monta la mia voglia di crunch, ma poi mi costringe a centellinarla e questo a volte lo apprezzo, a volte no. Dicevo che ci sono certamente eccezioni, perché amo Fiasco, Un penny per i miei pensieri o Archipelago (ma forse la verità è che questi giochi del grosso crunch ce l’hanno, anche se è ben mimetizzato). E questo si lega sempre al mio ciclo di ricompensa, quei giochi che mi danno solo il palcoscenico per raccontare appagano solo in parte il mio piacere.

Insomma, tutto vero, c’è una strada di mattoni gialli che conduce al fatto che io in modo naturale sia teso alla produzione di giochi crunch. Ma ecco, arrivo al punto centrale della mia risposta. Ritengo che in gran parte sia una critica ingiusta se volessimo guardare davvero alla mia produzione ludica. Se guardiamo davvero a quanto ho pubblicato, senza scomodare RavenDeath che è il mio esordio autoriale (che di crunch ne ha, ma credo né più né meno di altri giochi forgiti del periodo, pensando a Cani nella vigna, Annalise, Non cedere al sonno, Psi-Run…), quello che considero a tuttora il mio gioco meglio riuscito (il mio manifesto autoriale) è Precious, che invero ritengo essere di design alquanto leggero. O il più recente 42 GUNS; è tra i PbtA (Powered by the Apocalypse) più semplici e asciutti che esistano, con pochissimo crunch per il genere di riferimento. Un altro mio gioco pubblicato e semi-dimenticato (Il nome del padre) è un live da camera con meccaniche quasi nulle. Certo, ora sono al lavoro su diverse bozze di giochi e alcune sono ricche di crunch; penso a Il Castello di Dracula (che è un gioco commissionato) oppure al PbtA WAR (anche lui un gioco commissionato), oppure Wulfach; ma ci sono anche giochi molto leggeri come Seriana o Libro degli incantesimi.

Insomma, non voglio negare l’evidenza, anzi con orgoglio rivendico questo ruolo, anche perché troppo spesso ho sentito in bocca a molti sedicenti appassionati adoratori del GDR l’accusa che il design «moderno» (o «post-forgita») è pieno di giochi senza meccaniche e di giocatori «che si raccontano la storiella tra loro», quando invece stanno solo rendendo evidente la loro profonda e immatura ignoranza. Ma trovo ingiusta l’etichetta affibbiatami perché lo vedo come uno stereotipo e non una rappresentazione della mia vera produzione ludica.


Questa del raccontarsi la storiella mi ha sempre fatto sorridere. Di fatto non è ciò che facciamo tutti, a prescindere dal gioco che stiamo effettivamente giocando? O non sarà che dietro quell’accusa si nasconde una critica (più o meno fondata, non importa) sull’uso di meccaniche alternative rispetto al classico lancio dei dadi? Qual è, secondo te, la caratteristica principale dei giochi di ruolo, ciò che li contraddistingue nettamente da altre tipologie di giochi?

Colpisci un elemento fondativo di quei piccoli elementi teorici che stanno alla mia base, come game designer. Io ritengo ci siano oggi due enormi paradigmi epistemologici (potrei definirle cornici di senso, lenti colorate attraverso cui diamo significato e valore a quello che analizziamo, delle cose di cui abbiamo esperienza) che influenzano la visione del «gioco di roleplay» (uso qui una mia vecchia variante perché è fondamentale nel comprendere ciò che dico).

C’è un paradigma che è più storico, fondativo con la creazione del capostipite, che si rifà al concepire il gioco come un wargame evoluto.  E c’è un paradigma più recente (che non coincide a mio parere con The Forge, lo precede anche di molto, anche se quella corrente di pensiero assieme al mondo del live nordico e alla scuola norvegese è riuscita meglio a interpretarlo) che si rifà al concepire il gioco come un atto di storia condivisa. E a seconda di quale sia il tuo paradigma di riferimento, le interpretazioni che dai ai singoli giochi cambiano molto. E, citando Khun, il dialogo tra i diversi rappresentanti dei paradigmi sono impossibili, perché i paradigmi sono incommensurabili tra loro.

Molte critiche ai «giochi di roleplay» di un certo tipo (il non essere giochi di ruolo, essere un gioco in cui ce la si racconta, eccetera; critiche che non vengono riservate solo a Witch, Polaris o di recente anche a Blood Red Sands, ma in passato anche a giochi come On Stage o Il Barone di Munchausen) mi sembrano mosse derivanti da chi ha un certo paradigma in testa e non riesce a togliersi quelle lenti colorate per indossarne altre, che gli farebbero notare elementi diversi. E probabilmente qualcosa vale anche al contrario.

A ben pensarci, ogni volta che si parla di questi argomenti mi viene sempre in mente il mio vecchio manuale di psicologia generale, con un capitolo dedicato alla capacità della mente di catalogare e organizzare in modo discreto quello che nell’esperienza è continuo. E dove una delle fallacie che si presentano è quella di confondere «caratteristiche esemplari» con «caratteristiche fondative». Si confondono alcuni elementi peculiari e rappresentativi facendoli passare per necessari. L’esempio degli uccelli, dove uno ha in mente l’immagine esemplare dell’aquila e non riesce a non pensare a un uccello senza pensare al volo, eppure il volo non è una caratteristica necessaria per essere nella categoria degli uccelli. E così nel gioco di ruolo i dadi, il master, l’ambientazione fantasy; ho sentito parlare in tal senso di «elementi vestigiali» e così finiamo anche a sentirci a nostro agio se il logo di un premio al gioco di ruolo debba avere un drago, perché siamo pensando istintivamente al suo rappresentante primigenio esemplare, che ha un drago nel nome.

Personalmente, ma senza alcuna velleità di diffusione (mi piace confrontarmi con l’esterno, ma non ho necessità che altri adottino le mie categorie, servono a me per creare i miei giochi e quello che mi interessa è solo l’opinione sui giochi e non aderire al mio credo) ho un’idea semplicistica ma molto precisa su quale sia l’elemento minimo del gioco di ruolo. Deve essere un «gioco» che come passaggio obbligato per la sua fruizione richieda l’applicazione dello strumento sociale del «roleplay». E il roleplay potrei definirla (in modo assolutamente grossolano e non esaustivo, non stiamo trattando teoria) come una tecnica simulativa che richiede ai partecipanti, per un tempo limitato, di rappresentare alcuni ruoli in interazione tra loro o con un contesto situazionale fittizio (a cui aggiungo perché è importante, ma non necessaria: mentre altri partecipanti, o sé stessi in un secondo momento, fungono da «osservatori» dei contenuti e dei processi che la rappresentazione manifesta). E la parte «gioco», separata dal «roleplay», è importante perché delimita lo strumento in un contesto «ludico», anche se sappiamo che ludico non significa poi necessariamente solo intrattenimento, escapismo, evasione o divertimento. Poi posso dire che amo particolarmente anche la definizione di Francesco Rugerfred Sedda, ma la lascerei esplicitare a lui. Lo scatolone così diventa molto grande, ma ritengo ci sia ampio spazio per tutti!


Ultimamente in Italia stanno nascendo diversi corsi per persone interessate al game design e iniziano ad apparire i primi timidi tentativi di teoria. Mi piacerebbe conoscere la tua opinione a riguardo. Ritieni utili questi corsi? Sei soddisfatto da questi approcci alla teoria? Ma soprattutto, quali sarebbero i tuoi scopi, se ti fosse data la possibilità di creare un corso o scrivere di teoria?

Partirei dalla teoria. Onestamente io sento parlare del desiderio di teoria e della spinta a provarci non di recente, ma fin da quando mi sono affacciato al mondo autoriale, nel 2006 o giù di lì. E non credo realmente sia in atto qualcosa definibile seriamente come «teorizzazione» oggi. Mancano le basi, la metodologia stessa. Quello che vedo sono tentativi di creare magari un vocabolario comune, che da scienziato umanista trovo poco funzionale e molto naïf, o altrove vedo il tentativo di fare categorizzazioni per puro sfruttamento commerciale. Questo lo trovo legittimo, purché non si pretenda davvero di parlare di teoria. Onestamente in questo momento non credo nemmeno sia così tanto fondamentale, come designer sento piuttosto la mancanza di «tecnica». Quello sì che manca e mi permette di parlare del secondo argomento della domanda, i corsi di game design.

Io vedo relativamente di buon occhio la nascita di corsi di game design come luoghi in cui sia possibile agglomerare conoscenze tecniche, quello di cui abbiamo bisogno. Ho notato la nascita di qualche corso, celebre certamente quello di Tambù, ma ho visto qualcosa muoversi dalle parti di Play con Ligabue e anche altro, sebbene in questo momento mi manchino riferimenti più precisi. Ecco, vorrei partire da un punto: a quei corsi, come speaker oppure ospite sono state invitate persone a me vicine, ma io no, nel senso che non sono stato preso in considerazione, quasi certamente perché io sono una persona considerata totalmente ininfluente nello scenario ludico del GDR italiano. Ora mi è difficile commentare questi corsi senza sentirmi in una certa misura ipocrita, come la volpe di fronte all’uva. Inoltre, a quei corsi io non sto nemmeno partecipando come uditore quindi parlerei senza averci davvero guardato dentro fino in fondo.

Posso dire poche cose. La prima è che siamo alle primissime edizioni dei primi tentativi e chiaramente questi corsi mi pare abbiano i classici difetti da prodotti prototipali; mi pare abbiano forme un po’ immature, in modo abbastanza naturale, e spero che negli anni potranno andare ad affinarsi con l’esperienza, come accade per molti corsi. La seconda è che guardando il programma mi sembra che tutti i corsi si strutturino con una forte deriva tradizionale, diciamo pure una forte deriva «dndesca».

Se questo da un lato lo capisco, essendo qualsiasi prodotto legato a D&D capace da solo di fagocitare il mercato nella sua quasi totalità, dall’altro non capisco perché non dotare eventuali designer degli strumenti per decodificare anche giochi che a D&D non si rifanno. Penso anche solo alla scuola svedese dello Year Zero Engine (dal capostipite Mutant Year Zero), a giochi di discreto successo come 7th Sea, La Leggenda dei Cinque Anelli, L’Unico Anello, il GUMSHOE System, l’ultima incarnazione dello Storytelling System (Vampiri 5) o anche tutto il fenomeno post-forgita come Fate (invero un po’ in ribasso), i Powered by the Apocalypse, o i Forged in the Dark. Credo che, senza gli opportuni strumenti di decodifica, anche fenomeni legati a D&D, come il fenomeno OSR (penso a Black Hack o Into the odd) o 13th Age, rimangano sospesi.

Se io avessi la possibilità di occuparmi di un corso, o parte del tale, vorrei permettermi di concentrarmi realmente sulle tecniche, sui concetti di paragame, metagame, bleed, sul reward circle, sulle tipologie di risoluzioni meccaniche, sulle differenti scuole e applicazioni, sul tipo di strumenti meccanici utilizzati. Ancora, sulla gestione delle fasi di sviluppo e playtest, sugli strumenti dati a disposizione di un designer per farsi conoscere. Se possibile cercando proprio di abbracciare tutte le scuole, fornendo agli uditori la possibilità di scegliere la loro strada in modo consapevole e  informato. Ma questo deriva dalla mia vera professione, che in parte è dedicata alla mia esperienza nella creazione di percorsi post diploma e di formazione tecnici informatici e alla mia esperienza come formatore. Spero in futuro di avere questa possibilità.

Poi, sulla teoria io lascerei perdere per il momento. Un passo alla volta. Creare lezioni e materiale per le lezioni, affinarle negli anni e col tempo arrivare a un corpus di conoscenze coerente e potenzialmente definibile come scuola. E dalla scuola poi il passaggio a forme di bibliografia teorica.


Su questo mi trovo d’accordo con te. La teoria deriva dalla pratica e non c’è modo di invertire questo processo, almeno nella sua fase iniziale (che è quella in cui ci troviamo noi). A tal proposito quale sarebbe in assoluto la prima diapositiva di un corso tenuto da Iacopo Frigerio?

Non ci ho veramente pensato. Chiaramente io parlerei di ciò che al momento mi sento concretamente di dominare, ossia il game design di giochi di ruolo. E probabilmente metterei subito in chiaro il mio contesto di riferimento. Comparirebbe quindi la frase «System does matter» e probabilmente sotto alcune copertine di giochi importanti storicamente a livello di design. La seconda sarebbe una mia veloce biografia in sintesi e la terza il programma del corso, e i punti che terrei.

Ma, sono sincero, pianificare un intervento formativo è sotteso agli scopi reali che il corso richiede. Quale sarebbe il mio scopo? Magari devo solo parlare in pochi incontri di tecniche alternative in un corso sulla SRD di D&D. Magari lo scopo è formare su tutte le possibili tecniche di game design. Magari è un corso di soft skill o di project management da inserire nel contesto game design. A ben pensarci, anche la prima slide potrebbe cambiare molto; per esempio nei corsi dove oggi insegno la mia prima diapositiva è il logo dell’azienda per cui lavoro e la seconda è quella istituzionale col titolo della lezione.

Focalizzandomi sulla diapositiva senza contesto sono finito per far emergere semplicemente me stesso, ma non ha particolarmente senso prendendo gli esempi reali da cui provengo. Quasi certamente in un contesto reale io sparirei, per farmi tramite dello scopo della lezione di quel giorno.


Immagino tu sia legato a un luogo in particolare. Qual è?

Ho alcuni posti a cui sono legato, certamente. Il primo che mi viene in mente è Castell’Arquato, nel piacentino. Un borgo che ha ancora la sua struttura medioevale intatta, dove ho vissuto per circa 6 mesi quando lavoravo lì vicino. Cercavo un appartamento nelle vicinanze della fabbrica per cui facevo lo stage e ci incappai per caso, fu amore a prima vista. Sono sempre molto affascinato dagli aspetti medioevali e rinascimentali che ci raggiungono e amo esserne circondato. Un altro luogo che per me ha lasciato il segno è San Francisco, una città in cui vorrei abitare per qualche tempo. Un crogiuolo moderno, stranissimo ma con un’identità così precisa. Un luogo che ho amato molto.


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